Micioni e chitarre
Fausto è Fausto. Nella sua tana dai muri porosi di chitarre e amplificatori, resta lui. Passano generazioni, i capelli restano lunghi e Lucia è presente.
Tutti musicisti quelli che sono passati qui dentro? “No. Tanta gente affascinata dalla musica, ma ancor di più dalla condivisione, dallo stare insieme. Qui i ragazzi si sono sempre incontrati e hanno parlato e suonato.” Quello che capisco dalle parole di Lucia, mentre cerca un libro di musica per una bimba-cliente, è che tutti quelli che sono passati per FG Music l’hanno fatto perché l’aria che si annusa è quella della libertà di fare o non fare è quella della responsabilità personale che si costruisce sulla pelle dei rullanti o si arrampica sulle corde di una chitarra. E capisco anche che quindi nessuno marchi il territorio, qui. Nemmeno chi ne avrebbe diritto, perché ha messo in piedi la baracca. E neanche il bel gattone nero che rifiuta il cibo e cerca le carezze di Livio lo fa. “Sai quanti ne ho visti che parlavano con mio padre, anzi che lo ascoltavano, e poi si mettevano lì a costruire amplificatori e a chiedere consigli e a seguirli persino, una specie di miracolo per i ragazzi.”
“Ti ricordi di quella volta che a Carnevale facemmo i Blues Brothers a Piazza Garibaldi? – ecco Fausto e i suoi ricordi- Una cosa eccezionale, un’occasione per stare a giocare con una marea di gente, saranno state cinquemila persone, che era con noi a divertirsi e omaggiare la musica dentro quel film mezzo anarchico”. Sì che mi ricordo, io. Ma poi quelle occasioni hanno costruito qualcosa o sono rimasti solo bei ricordi? “Ma perché il comune, la chiesa hanno fatto qualcosa per i ragazzi? S’è vista una realizzazione? Si so’ dovuti affidare a uno, il sottoscritto, che voleva a tutti i costi fare qualcosa, e l’ha fatto, privatamente.” “Ah, e la radio? – Fausto non lo fermi, ti molla per andare da un altro a parlare di non so cosa e poi riprende il discorso. “La radio non è stata una cosa grande, Radio Città Futura…” Detesto la nostalgia, è chiusa, un po’ egoista, ti fai solo un po’ le fusa. “Quanti ragazzi ci giravano… duecento, trecento” Stavolta non esagera. “Un’esperienza straordinaria, con la musica che teneva attaccati tutti” Era una altro mondo, Fausto. “E i concerti?” Altra stagione.
Ma ora? che farai, ora? “Niente, faccio quello che faccio sempre, sto qua, Lucia organizza un festival rock, ci rimettiamo un po’ di soldi, e continuiamo ad aspettare la gente che entra e si trova a casa. Domenica mattina, vieni, ci vediamo con un bel po’ di gente che non sa più dove provare, sono quelli dell’orchestra della Scuola Popolare di Musica, per un periodo provavano al Pacifico, poi… E’ una bella cosa, si incontrano, suonano, si divertono.”
Fausto ha messo in piedi tutto quanto e ha tenuto duro tanti anni perché voleva, perché gli interessava, perché sentiva che era “fare la cosa giusta”, senza progetti, senza aiuti, ma con la certezza di suonare la musica che ci voleva.
Ancora una volta la storia di una persona (ma non dimentichiamo Lucia e Livio e tanti altri), che costruisce un luogo che a sua volta apre tante strade. E continua a tenerle aperte e non c’è grigiore di capelli che tenga.
Esco, per il momento, e il micione che non vuole mangiare, non può avere le carezze – Livio è uscito – ma guarda il mondo che penetra le pareti di chitarre e non alza steccati, non marca il territorio.